
Uno studio pubblicato sulla rivista Science in collaborazione con la Harvard University nel settembre del 2019 ha messo in evidenza l’esistenza di una universalità dei suoni tra le culture. E’ stato uno studio imponente, forse il più ampio mai realizzato, che ha analizzato un secolo di storia in 315 culture nel mondo, arrivando alla conclusione che, in relazione a uno stesso contesto o funzione, tutte le musiche del mondo hanno dei tratti comuni.
Non è più un comune sentire (la musica linguaggio universale, sai che scoperta!) ma una realtà scientifica: in relazione al contesto e alla funzione le musiche di tutto il mondo si assomigliano, indice del fatto che vengono costruite sulla base di mattoni comuni a tutta l’umanità.
Parlando con un linguaggio più semplice possiamo dire che in contesti definiti (cura dei bambini, amore, riti religiosi, incitamento, guarigione, …) le musiche utilizzate presentano reali caratteristiche acustiche (toni, estensione, ritmo, tempo, complessità armonica e melodica) ripetibili tra le culture. Ninne nanne, canzoni d’amore, inni alla guerra hanno una grammatica musicale comune.
Nel suo testo “Il canto degli antenati”, l’archeologo inglese Steven Mithen parte da un assunto: la propensione a fare musica è uno dei più misteriosi, affascinanti e allo stesso tempo trascurati tratti distintivi del genere umano. La letteratura scientifica ha infatti storicamente sottovalutato questo campo di studio, definendo la musica non come un adattamento selettivo, ma come una “tecnologia”, un prodotto creato a scopo ludico e ricreazionale. Mithen sostiene invece che lo studio dell’origine del linguaggio, e più in generale dell’abilità comunicativa dei nostri antenati dovrebbe essere rivalutato alla luce dell’aspetto musicale, che a sua volta non può prescindere dall’evoluzione del corpo e della mente umana.
Il linguaggio musicale è infatti più antico della parola. “Dal punto di vista evoluzionistico, la capacità di cantare precede la capacità di parlare articolando i fonemi”, afferma Alice Mado Proverbio, professoressa associata presso il NeuroMi-Milan Center for Neuroscience dell’Università di Milano-Bicocca nel suo libro “Neuroscienze cognitive della musica. Il cervello musicale fra arte e scienza”. E’ ancestrale, nel feto, nel ritmo regolare del cuore della madre e del proprio. Se poi ci spingiamo a seguire il percorso della musica nel nostro cervello, i suoni raggiungono l’ippocampo, sede della memoria: suoni, ricordi e affetti sono quindi legati nell’inconscio immaginario. D’altra parte l’ipotesi che la musica fosse un linguaggio universale dallo straordinario potere, anche quello di curare, era già noto ai greci, Apollo stesso era dio della musica e della medicina. E ai nostri giorni l’intuizione dei greci sembra essere diventata realtà: le strade di musicoterapia si moltiplicano, fino all’annuncio di algoritmi musicali specifici in grado di comporre musiche adatte a risolvere obiettivi medici specifici.
Ma torniamo alla musica come linguaggio universale e alla ricerca con cui abbiamo aperto l’articolo. Aver dimostrato che la musica è davvero un linguaggio universale apre a nuove prospettive di ricerca in diverse branche del sapere, dall’antropologia alla psicologia, dalla sociologia alla linguistica, dalla comunicazione agli studi comportamentali. I suoni sono una natura profonda comune nella natura umana, come le emozioni primarie e le espressioni di mimica facciale, già riscontrate da Darwin in tribù tra loro lontane. La cultura umana è costruita su blocchi psicologici comuni ovunque nel mondo, che si traducono anche in una grammatica musicale.
Come funziona questa grammatica, così come funziona la creazione artistica, resta invece ancora avvolto da un magico velo!